“Quest’ altro inganno ha escogitato nell’ animo:
in una stanza aveva impostato e tesseva un gran telo,
sottile e assai ampio, e ci diceva senza esitare:
– […] Aspettate, pur bramando le nozze, che finisca
il lenzuolo – che i fili non mi si sperdano al vento -,
il sudario per l’ eroe Laerte […]. -.
[…] Ma lei di giorno tesseva il gran telo
e di notte, con le fiaccole a lato, lo disfaceva.”
[Odissea, libro II, vv. 89-105 – Omero, trad. a cura di G.Aurelio Privitera]
I primi documenti storici, che ci riportano la condizione femminile delle donne greche, sono sicuramente i poemi omerici.
Omero riporta scene di vita quotidiana che, se non totalmente vere, erano di sicuro verosimili, poiché i personaggi dei cantori dovevano adempiere e muoversi secondo le regole sociali e morali esistenti, perché la poesia era un mezzo di insegnamento oltre che di intrattenimento.
La prima donna che Omero ci riporta come simbolo di femminile virtù è Penelope.
Ella, fedelissima alla memoria del marito Odisseo, escogita un ingegnoso stratagemma per poterlo aspettare, rimandando la decisione delle nozze.
Penelope rappresenta uno dei ruoli femminili più importanti per la società greca, la moglie tessitrice.
Tutte le donne omeriche tessono, ma ad ogni tessitrice, che abbandona il telo, si oppone una controparte maschile.
“Ma va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi,
il telaio, la conocchia, e comanda le ancelle
di badare al lavoro: la parola spetterà qui agli uomini,
a tutti e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa.”.
[Odissea, libro I, vv. 356-59 – Omero, trad. a cura di G.Aurelio Privitera]
Così Telemaco risponde alla madre Penelope, che aveva abbandonato il suo lavoro per domandare all’ aedo di cambiare il mythos del canto, troppo doloroso per lei.
Questa risposta, da parte del figlio alla madre, rimanda ad un altro dialogo omerico, quello tra Ettore e Andromaca.
“Tornata a casa, datti da fare con i tuoi lavori,
con la tela e con la conocchia, a alle ancelle dai ordine
che attendano al loro; spetterà la guerra agli uomini,
a tutti – e soprattutto a me- quanti vivono a Troia”
[Iliade, libro VI, vv. 490-93 – Omero, trad. a cura di Giovanni Cerri]
Questa risposta di Ettore descrive e fissa lo spazio femminile e, allo stesso tempo, ne definisce le funzioni.
Secondo la Professoressa Valeria Andò , ne L’ ape che tesse, il lavoro della filatura e della tessitura era uno stato un lavoro di prerogativa femminile, attraverso il quale le donne, creando i tessuti che avrebbero coperto i membri della famiglia, sarebbero state protagoniste di un compito oltre che fisico anche simbolico, mediando tra la nudità, una condizione naturale e primitiva, ed il contesto sociale, rappresentato da una veste culturalmente identificativa.
Da qui il motivo per cui Andromaca abbandona il telaio.
“Tu, Ettore, dunque per me sei padre e madre adorata
ed anche fratello, e sei mio splendido sposo.”.
[Iliade, libro VI, vv 429-30 – Omero, trad. a cura di Giovanni Cerri]
Il tempo che Andromaca ha trascorso in casa, intenta nelle opere femminili, le ha dato le competenze adeguate alla difesa dei valori familiari: ella interviene nelle scelte belliche di Ettore per difenderlo, per salvaguardare quel legame familiare da lei intrecciato, filo dopo filo.
“Andromaca è il primo personaggio femminile per il quale esplicitamente l’ attività della tessitura viene presentata come competenza esclusiva ed escludente, contro l’ attività maschile della guerra.”.
[ L’ ape che tesse – Valeria Andò]
Rigorosa deve essere la separazione dei due mondi, femminile e maschile. Benché l’ unione di Ettore ed Andromaca sia affettuosa, come non ricordare il gesto di levarsi l’ elmo per non spaventare il figlio, egli comunque si aspetta una sposa obbediente, pudica e fedele, il perfetto quadro di una donna subalterna, vittima di una mentalità misogina, e non desidera una consigliera.
Mentre Andromaca non sa di sapere, cioè non riesce ad intervenire in maniera efficace per salvare quel mondo che lei stessa ha curato e vestito, Penelope invece, nel suo continuo fare e disfare la tela, passa dal poièin al prattein, come evidenziato dalla storica Nicole Loraux , cioè Penelope compie un’ azione eticamente ed anche politicamente connotata, in cui rivela la sua personalità e la sua persona.
“Ismene: Ma bisogna riflettere su questo,
siamo nate donne, sì da non
poter lottare contro gli uomini; e poi
che, essendo sottoposte a chi è
più forte, dobbiamo obbedire a
questi ordini e ad altri ancora più
dolori.”
[Antigone, vv. 60-63 – Sofocle, trad. a cura di Raffaele Cantarella]
Il prattein di Penelope è tanto forte da opporsi al kratos (potere) maschile del figlio Telemaco. Con il dolos (inganno) di cui è fatta la tela della donna, il tessere da reale diviene metafora dell’ intrecciare inganni, tutto finalizzato a non contrarre nuove nozze, sottraendosi così al controllo maschile che la vorrebbe nuovamente moglie e madre.
Mentre Ismene ed Andromaca non sanno intervenire per evitare il peggio, Antigone e Penelope agiscono per contrastare quel potere maschile che le vorrebbe succubi di decisioni troppo importanti. Mentre Antigone pagherà con la vita, per il coraggio delle sue azioni; invece Penelope pagherà con la solitudine dell’ essere legata a chi non c’è.
Non bisogna, però, credere , sottolinea la Professoressa Eva Cantarella, che Penelope, lodata anche da Agamennone come esempio di virtù, possa sfuggire alla visione misogina del mondo omerico.
Non è pensabile accostare la figura astuta di Penelope a quella, altrettanto acuta, di suo marito, poiché gli inganni della donna sono infimi, come la natura femminile stessa.
“Tu sai com’ è l’ animo di una donna nel petto:
vuole arricchire la casa di colui che la sposa,
non si ricorda e non chiede più dei suoi figli
di prima e del proprio marito defunto.”.
[Odissea, libro XV, vv. 20-4 – Omero, trad. a cura di G.Aurelio Privitera]
Così Pallade Atena scrive a Telemaco la donna, un essere volubile, incapace di provare sentimenti duraturi.
La donna, cresciuta con l’ aspettativa massima del matrimonio, vive la sua esistenza ed i suoi affetti attraverso quel legame, che una volta reciso la libera dalla precedente famiglia, pronta ad essere accolta da un nuovo sposo, per il quale procreare nuova legittima prole.
Quello che dice la dea è vero, la donna era costretta contrarre un nuovo matrimonio una volta rimasta vedova, e quindi perché avrebbe dovuto vivere in maniera diversa lo stato di transizione da un marito ad un altro, quando era stata cresciuta solo in funzione del matrimonio e della riproduzione?
Curioso è come proprio ad Atena Omero faccia dire ciò, essendo Atena la dea vergine, colei che ha rifiutato le nozze per non assumere mai un ruolo totalmente femminile. E’ sempre Atena, infatti, a consigliare sia Odisseo che Telemaco in questioni prettamente maschili.
Alla casta ed armata Atena si contrappone la bella e sensuale Afrodite.
Mentre la prima, negando l’ ingresso nel mondo femminile, è ammessa nella realtà maschile della guerra, Afrodite è totalmente estranea a ciò che concerne il campo di battaglia, da rimanervi ferita non appena vi si presenta.
“[…] Questi inseguiva la Cipride col bronzo spietato
ben sapendo che imbelle era la dea, non certo di quelle
dee che capeggiano gli uomini durante la guerra,
non certo Atena […].
D’ un balzo ferì con la lancia puntuata la mano di lei
delicata; subito l’ asta penetrò la pelle
attraverso il peplo immortale, […]
al capo della mano; scorreva il sangue immortale della dea,
l’ ikhòr, quello che scorre nelle vene degli dei beati […].”
[Iliade, libro V, vv. 330-33, 337-40 – Omero, trad. a cura di Giovanni Cerri]
Lo stesso Omero sottolinea la differenza tra la Pallade e la Ciprerea, la quale è intervenuta in battaglia solamente per portare in salvo il suo figlio più caro, Enea. Senza l’ intervento della madre egli sarebbe morto sotto i colpi achei di Diomede, che con tracotanza ferisce la mano della Dea, pur avendola riconosciuta.
“Vattene, figlia di Zeus, dalla guerra e dalla battaglia!
Non ti basta dunque sedurre le femmine imbelli?”
[Iliade, libro V, vv. 350-59 – Omero, trad. a cura di Giovanni Cerri]
Afrodite, simbolo della femminilità e della sensualità, non ha il diritto di stare in battaglia, come le ricorda anche il padre Zeus:
“A te figlia mia, non sono concesse le imprese di guerra,
tu devi invece pensare alle piacevoli imprese del matrimonio,
mentre quelle saranno cura di Atena e del rapido Ares.”.
[Iliade, libro V, vv. 428-30 – Omero, trad. a cura di Giovanni Cerri]
Proprio come Ettore con Andromaca e Telemaco con Penelope, anche Afrodite viene rimandata alle sue mansioni da una figura maschile, quella del padre, andando così a rimpolpare il gran numero di uomini ai quali una donna doveva obbedienza durante la sua esistenza.
Afrodite, però, non viene mandata al telaio, anche quello di competenza della Pallade, bensì alla cura del matrimonio, proprio a lei che, assieme a Clitennestra, era ben famosa per i suoi numerosi amanti, divini o umani.
“L’ aedo iniziò sulla cetra a cantare con arte
gli amori di Ares e Afrodite dal bel diadema,
come in segreto si unirono nelle case di Efesto
la prima volta: molti doni le diede ed il letto oltraggiò
di Efesto Signore. Ma andò da lui come nunzio
il Sole che li vide unirsi in amore.
[…] – Come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus,
a me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto,
perché lui è bello e veloce, mentre io
sono storpio.”.
[Odissea, libro VIII, vv. 266-71, 308-11 – Omero, trad. a cura di G. Aurelio Privitera]
Alla schiera delle fedifraghe, tra cui, la già citata, Clitennestra ed Elena, vi è la bella Afrodite, che senza colpo ferire infrange i voti matrimoniali.
Però Efesto, al contrario di Agemennone e Menelao, non accetta il tradimento e tende una trappola ai due amanti, per ottenere vendetta ed anche un rimborso.
“[…] Però la trappola e il vincolo li tratterrà,
fino a quando suo padre mi ridarà tutti i doni nuziali
che gli diedi per questa sposa faccia di cagna:
perché è bella sua figlia, ma licenziosa.”.
[Odissea, libro VIII, vv. 317-20 – Omero, trad. a cura di G. Aurelio Privitera]
Omero con pochi versi ci illustra la sanzione che colpiva, realmente, la moglie infedele, cioè la restituzione degli eedna , i doni nuziali, come ci illustra Eva Cantarella nel suo libro L’ ambiguo malanno. Il marito, infatti, prima di contrarre il matrimonio, pagava al suocero tanti doni quanto era il valore sociale della futura sposa. Gli eedna erano un vero e proprio pagamento con cui l’ uomo acquistava la moglie, poiché la donna passava dall’ essere proprietà del padre ad essere del marito.
In caso di tradimento, quindi, era uso che il marito fosse risarcito dei doni nuziali fatti, mentre per il castigo fisico basti pensare al, dir poco, burrascoso rapporto tra Zeus ed Era: il padre degli dei era solito percuotere violentemente la moglie. Il rapporto tra i due coniugi era basato su una matrice di aggressività portata ai massimi termini, eccesso consentito perché entrambi immortali, ma il fatto che Zeus malmenasse la compagna era qualcosa di socialmente accettato dal pubblico, quindi, purtroppo, è pensabile che simili racconti non si discostassero dalla quotidianità.
Essendo la moglie una proprietà, comprata dal precedente padrone, il marito aveva il diritto di trattarla come meglio desiderasse.
Zeus con le sue molte amanti e concubine è lo stereotipo dell’ uomo greco, ed Era, come ogni moglie greca, era costretta a subire i tradimenti del proprio compagno.
La donna omerica era solita convivere, nella medesima casa, con le concubine del marito, oltre che con le schiave con il quale il padrone aveva facoltà di intrattenersi.
Molte delle schiave erano parte del bottino di guerra, come ci ricorda la povera Cassandra, condotta schiava da Agamennone.
Dalle concubine l’ uomo generava figli spuri (nothoi) , che però non erano discriminati rispetto ai figli legittimi (gnesioi) avuti dalla moglie.
I figli illegittimi era riconosciuti quasi come pari dei legittimi, e alla morte del padre partecipavano attivamente alla spartizione dell’ eredità.
“-Dopo che avrete ordinato tutta la casa
e dalla sala ben costruita avrete condotto le serve
tra la rotonda e il recinto perfetto dell’ atrio,
colpitele con le spade affilate, finché avrete tolto
a tutte la vita e avranno obliato l’ amore
che offrivano ai Proci.-
[…] E tra esse Telemaco cominciò […] :
-Non voglio strappare la vita con una semplice
morte a queste […]-.
[…] E appese una fune di nave dalla prora turchina
ad una colonna grande della rotonda […].
[…] Così esse tenevano in fila le teste, ed al collo
di tutte era un laccio, perché morissero d’ odiosissima morte.
E per un po’ con i piedi scalciarono, non molto a lungo.”.
[Odissea, libro XXII, vv. 440-5, 465-6, 471-3 – Omero, trad. a cura di G. Aurelio Privitera]
Il rapporto tra concubina e padrone, come illustrato da Omero, doveva essere rispettato dalla donna, che doveva assoluta fedeltà all’ uomo, poiché il loro legame era socialmente riconosciuto, anche se non al pari del legame tra marito e moglie.
Per questo Odisseo, una volta sterminati i Proci, ordina che le ancelle, infedeli durante la sua assenza, siano uccise.
Ad accumunare le moglie e le concubine, oltre che il telaio e la fedeltà all’ uomo, vi era la totale esclusione dalla vita sociale maschile e la subordinazione al capofamiglia, al quale erano sottomesse in tutto, dal piacere sessuale al potere punitivo.
“Le cortigiane le abbiamo per il piacere, le concubine per la cura quotidiana del corpo, le spose per la procreazione di una discendenza legittima e per avere una custode fedele del focolare domestico.”.
[Contro Neera, 122 – Demostene o Pseudo Demostene, trad. a cura di Elisa Avezzù]
Demostene, o Pseudo Demostene , in poche righe ci illustra perfettamente le tre ed uniche categorie socialmente accettate in cui una donna doveva trovare il suo posto.
Secondo lo storico ed antropologo Jean-Pierre Vernant : “l’ attrattiva della seduzione erotica fa parte del matrimonio […] ma non è fondamentale né un elemento costitutivo” , poiché lo scopo del matrimonio era quello di unire due famiglie, oltre che quello di procreare una prole legittima.
Come affermò anche la scrittrice Eva Keuls , per gli antichi greci tra il piacere sessuale ed il matrimonio vi sarebbe incompatibilità, poiché le spose, all’ interno del gineceo, trascorrevano le loro giornate intente nelle opere femminili, lontane dalle urgenze della passione.
Ancora una volta si sottolinea il binomio donna-ape della moglie, in netto contrasto con la figura delle cortigiane.
Nella Lisistrata di Aristofane è ben evidente che la seduzione femminile fosse considerata rischiosa e capace di trasformare una sposa, bella e virtuosa, in una cortigiana, sempre che questo fascino non fosse stato guidato e controllato dal marito, che doveva essere l’ unico beneficiario di simili attenzioni.
Chi era quindi la cortigiana, o per meglio dire l’ etera?
L’ etera era una donna colta, più istruita rispetto alle donne destinate al matrimonio. La mansione principale delle etere era quella di accompagnare gli uomini nei luoghi nei quali le mogli, o le concubine, non erano ammesse, come i simposi.
Queste donne colmavano il vuoto sociale lasciato dalle moglie e dalle concubine, segregate in casa ed estranee alla vita sociale maschile. Al contrario dell’ etere, poi, le mogli non sarebbero state in grado di sostenere conversazioni o intrattenere con danze e poesie i convitati, poiché, mentre le etere venivano istruite nelle arti, alle future mogli le madri insegnavano unicamente ciò che concerneva la cura della casa e dei figli, senza curarsi in alcun modo della loro istruzione.
Non bisogna però confondere le etere con le porne. Mentre la prima, infatti, era una compagna che l’ uomo pagava per avere una relazione gratificante, anche, sotto il profilo intellettuale, la seconda invece era una prostituta , pagata per scambi occasionali e puramente sessuali.
La donna greca, quindi, possedeva una ben misera scelta, e comunque dipendeva sempre e solo da un uomo, che questo fosse il padre, il marito o un figlio, ella obbediva sempre a qualcuno.
Tagliata fuori dalla società, maschile e maschilista, la donna era solo uno strumento che rispondeva alle diverse esigenze maschili, sempre come oggetto e mai come soggetto.
Dei tempi del matriarcato, della Grande Dea Madre , non era rimasto che un timido eco mitologico, in una società governata e vissuta esclusivamente da uomini.
prosegue l’esame del mondo femminile nel tempo. Interessante spaccato di un mondo dominato dall’uomo con la donna succube e priva in molti casi della sua femminilità
Interessante l’intreccio storico-letterario del post.
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Ti ringrazio, volevo mostrare cosa si celasse dietro le figure a noi tanto note, come Penelope e Andromaca, cioè quella società che abbiamo accantonato per seguire la storia incalzante del mito.
Purtroppo la donna, dopo l’ avvento del pantheon indo-europeo, ha dovuto lottare, e lo fa ancora adesso, per essere riconosciuta come essere umano, oltre che come appartenente al genere femminile.
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chapeau!!!
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Ti ringrazio del tuo apprezzamento.
Mara
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Bello rileggerti! Ciao,65Luna
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